“Nulla come la bocca di un dio è muta. Qualche mese fa, Claudio Milano aveva annunciato in forma privata di aver deciso, per necessità e scelta assieme, di prendersi una pausa dall'attività discografica. A un passo dalla fine dell'anno, eccolo invece tornare in pista con un disco sul quale gli ennesimi elogi rischiano di trasformarsi in retorica vuota, insensata, di sicuro ben poco utile alla comprensione di un'arte che non nasce per essere descritta, ma sperimentata. Chi sia Claudio Milano non vogliamo neppure più spiegarlo, rimandiamo all'intervista che ci rilasciò due anni fa che è documento fin troppo esauriente al riguardo. Ci limiteremo a dire che Claudio oggi si guadagna da vivere facendo l'artista da strada – professione per cui continuiamo comunque a nutrire il massimo rispetto - dovendo resistere a stento e subire pure danneggiamenti da parte di un pubblico non in grado di comprenderlo. Sono dettagli che forse nemmeno lui vorrebbe leggere pubblici, ma la speranza è che, fosse anche per i pochi che daranno uno sguardo a questa recensione, sia chiaro una volta di più quale sia lo stato dell'arte in Italia. Ma lui di trasferirsi e tentare l'avventura estera non ne vuol sapere, e con coraggio prosegue di giorno in giorno quello che ha senso definirsi sacrificio nell'arte e per l'arte nel luogo dell'arte per eccellenza: l'Italia, appunto. Un'arte che, sia chiaro, nemmeno chi scrive può aver davvero colto a fondo. Troppo “avanti”, proiettata in una dimensione che chissà mai se si realizzerà davvero, troppo ampia, estrema, lontana dal comune concepire l'espressione, ad anni luce persino dalle forme d'avanguardia più ostiche e improbabili, e che trova forse qualche parente lontano solo nella sua componente teatrale. Per “Ukiyoe”, l'artista leccese decide di utilizzare entrambi i suoi marchi: quello storico, NichelOdeon, con cui ha firmato i capitoli imprescindibili della sua avventura metasonora, e InSonar, l'ultimo grande contenitore entro il quale ha esplorato i limiti delle sue possibilità espressive, coadiuvato da un'autentica orchestra dal valore inestimabile, assemblata membro per membro. Ma a differenza di quanto avvenuto nel monumentale predecessore, qui non c'è distinzione fra le paternità dei brani, non ci sono due linee che corrono in parallelo: tutto si gioca su una serie di nodi che legano il tutto e che potrebbero fare di “Ukiyoe” un condensato dell'arte tutta di Milano. Potrebbero, appunto, non fosse che il disco – nato come colonna sonora del cortometraggio “Quickworks & Deadworks” di Francesco Paolo Paladino – sia il capitolo (sembra un paradosso e forse lo è!) più atipico della sua discografia. Innanzitutto per l'argomento centrale delle liriche: il mare. Niente più perversioni, demoni, incubi, passioni. “Ukiyoe”, ovvero "Mondi fluttuanti", è l'impressione, come l'avrebbe intesa Monet, di un artista che fino ad oggi aveva sposato senza mezzi termini espressionismo e surrealismo. Sono sei brani che fissano istanti e ne donano la più immediata, spontanea, sentita delle rappresentazioni. E l'unico protagonista fisso è appunto il mare, “dove tutto finisce e, fra i flussi, si rigenera”. È un ciclo, che prende forma dall'invocazione di “Veleno”, una sorta di mantra che riprende la metafora squisitamente romantica che lega lo scorrere del tempo al flusso acquatico e che non dà risposta alcuna, anzi si ferma sul più bello, quando dopo “chi ama la morte” e “in fondo un po' ne ha paura” dovrebbe essere il turno di “chi nega la vita”, che improvvisamente se ne dimentica. Il tutto mentre gli archi duettano con il claustrofobico harmonium di Stefano Giannotti, in un incontro ravvicinato tra “Desertshore” e l'ultimo Hammill (artista del quale Milano, che occasionalmente veste anche i panni di autore di scritti musicali - "qualcuno" direbbe "a tempo perso" - ha tra l'altro realizzato una splendida monografia offerta proprio a OndaRock), seguendo le precise disposizioni di Paolo Siconolfi, l'unico suo autentico braccio destro in tutta l'avventura. Claustrofobia pronta poi a farsi esplosione di follia nello spettacolare teatrino cacofonico di “Ohi Mà - Nel Mare che hai Dentro”, dove a prendere il sopravvento è un dolore nuovo: non più esaminato in ogni suo dettaglio e reso per mezzo di iperboli, esteriorizzato, ma concentrato, fermato in un suo momento, interiorizzato. Un dolore che sulla viscerale interpretazione biblica di “I Pesci Dei Tuoi Fiumi” diviene finalmente un mix di terrore e angoscia, come Scott Walker insegna. Il cuore pulsante dell'intero disco è però “Marinaio”, il centro verso il quale tutte le direttrici deformate puntano, un magma che parte incandescente tra pulsazioni tachicardiche e rallenta fino a raffreddarsi e solidificarsi in una sinfonia atonale condita d'elettronica su cui l'influenza di John Zorn si sente forte e chiara. Si tratta anche del punto focale del viaggio, dove l'elogio alla natura e il tema del dolore e dell'angoscia si incontrano immersi nel mare, quello dei pesci condotti dal marinaio con crudo cinismo al dolore prima e alla morte poi. È il compimento realizzato dopo la benedizione di Orfeo, tratteggiata nel capolavoro “Fi(j)uru d'acqua” in un soundworld tutto nuovo per Milano, fatto di scorie elettroacustiche - firmate da Giannotti in tandem con Josed Chirudli – ad accompagnare piano e harmonium. La conclusione di “MA(r)LE”, infine, è un altro apice della carriera tutta di quello che oggi fatichiamo a definire “solo” cantattore, una meraviglia contemplativa di venti minuti scarsi, ambientata sul fondo di un abisso, del quale per la prima volta viene delineato ogni dettaglio. Il testo, stavolta, si limita a giocare con assonanze e consonanze mantenendo la struttura ciclica e la centralità del binomio male/mare, riassumendo con una singola variazione della parola base ciascuna fase del disco. Il tutto articolato in tre diversi momenti: l'iniziale “Tsunami!”, con immersione e seguente esplosione cacofonica degli archi e della fisarmonica di Fabio Zurlo; “Into The Waves”, prima una sorta di tango a nuoto in duetto con KasjaNoova, poi un passaggio attraverso coralli taglienti in forma di schegge glitch; infine “Mud”, sonata apocalittica con cui il cerchio, idealmente, si chiude. Non è dato a sapersi, ora, se la storia dell'arte – perché parlare di sola musica è più che mai limitante - continuerà per mezzo dei suoi autori a ignorare il genio di Claudio Milano. Quello che è evidente è che Claudio Milano sta scrivendo la sua di storia, la storia della sua arte: un'arte che resta fra le più innovative, intense, incomprese che si abbia mai avuto occasione di udire. Un'arte di cui si dovrebbe forse smettere di parlare, e di cui bisognerebbe sicuramente imparare a fruire. Voto: 8 Matteo Meda |