Guardate Luca Spaggiari aka Fargas , in posa come in un ritratto di Manet. Un personaggio bukowskiano, a dire il vero: “Fargas si alza, si gratta le natiche e poi trangugia un caffè amaro. Luca Spaggiari canta, non balbetta. La sua musica è una pisciata dentro al cocktail.Via quegli occhiali da stronzo, scollati dalle orecchie quelle cazzo di cuffie giganti, stai dritto con La schiena, cazzo!”. Perciò perché parlare di Fargas – che fa gruppo, ma passatemi la metonimia – come di un cantante? Semmai dovremmo ascriverlo all'happening, al recitar cantando o ad una sbornia bruciata nell'immondizia quotidiana. Ma dicendolo, sbaglieremmo, o meglio non centreremmo il cocktail. Fargas non è per niente originale, ma la sua silhouette inserita nell'oggi ripieno di “cuffie giganti” può significare un bel respiro di dominante dentro un mare magnum di sciatteria.

Richiamando un sentito slowcore velvettiano che ricalibra in rock à la Gaetano (Chiusura), country fra Neil Young, De Gregori e Brega (Pubblica nudità demo version , Stelle rotte), hard rock limitato soft prog, fra Bad Company e il primo Vasco (Tu qui , Pubblica nudità , Apertura , Mentre io entravo nelle tue ossa) e voce pop narcotizzata à la Luca Carboni – che dopo un po' stanca e snerva -, Fargas rischia di esporsi un po' troppo e di cadere nello spleen indie. Chiamatelo pure limite di un uomo senza retta via, ma quello che dice non vola, rimane coi piedi per terra e annienta una generazione intera di hipster 2.0.

Nell'incipienza di certo scazzo, Fargas ha buone qualità per poter comunicare qualcosa, convogliare grammi di scontentezza e risolvere alcuni problemi a qualche indigesto e distratto ascoltatore. Fosse solo così com'è, si meriterebbe sufficienza e oltre, è la barba che gli fa perdere qualche punto. Scherzi a parte, Galera è un disco da ascoltare e da tenere in bacheca.

Christian Panzano