Il primissimo ascolto di questo disco è stato tutt'altro che entusiasmante, quella voce sussurrata e recitata, quegli arrangiamenti insoliti e così poco attuali, tutto sembrava eccessivamente lezioso, affettato, a tratti sdolcinato. Unico punto d'appiglio erano i testi, lirici e musicali, di una bellezza che valeva la pena approfondire, unica spinta a proseguire negli ascolti. Devo ammetterlo, non avevo idea di chi fosse Stefano Testa. No, non è un “emergente”, classe 1949, ha l'età di mio padre ed un solo precedente lavoro alle spalle, Una vita, una balena bianca e altre cose, un piccolo gioiello di prog italiano, pubblicato in appena mille copie, molto amato da alcuni estimatori ma passato quasi inosservato per tutti gli altri, era il 1977. Poi più nulla. Un secondo lavoro, Decadenza e morte di Andrea il Traditore, pensato due anni dopo, non vide mai la luce, forse a causa della reticenza dell'artista ad autopromuoversi e ad esibirsi in pubblico. Arriviamo al 2012, un incontro fortunato, quello con la Snowdonia di Alberto Scotti e Cinzia La Fauci, che permette, 35 anni dopo, la rinascita dell'artista. E torniamo al disco. Dopo il primo impatto deludente, procedo caparbiamente con gli ascolti, al secondo va già meglio, ma dal terzo in poi emerge vivida tutta la personalità e la notevole bellezza di questo lavoro. Mi capita raramente di ribaltare in maniera così radicale un mio giudizio, ma in casi come questo bisogna concedersi il tempo di metabolizzare la diversità ed anche l'estraneità ad un certo mondo musicale a cui si finisce col diventare avvezzi. Il silenzio del mondo è un disco fuori moda, non strizza l'occhio e non ammicca a niente, segue un suo percorso con coerenza e connotazioni ben precise, ma lo fa a prescindere da qualunque dettame indie o mainstream, è un disco senza tempo. Testa ci porta dentro un universo delicato ed elegante fatto di paesaggi onirici, voci interiori che intrecciano il sogno al ricordo, viaggi allegorici e promesse di rinascita. Ma non ingannino i toni gentili, sullo sfondo c'è anche un paesaggio “nudo e triste come un ospedale di notte”, c'è una sensibilità inquieta che sonda su di sé il peso grave del mondo, che racconta con apparente leggerezza anche storie di miseria, abbandono, follia. Tra le 14 tracce del disco ci sono almeno tre capolavori. Il primo è Domani è festa, pezzo d'apertura che ci catapulta subito in un piccolo eden incantato tra carillion, arpe e cori lirici, ma la favola è solo apparente, come quando si guarda nelle palle di vetro con la neve artificiale perché “c'è qualcosa che ammala il tramonto, sembra davvero che il cielo cada”. È il perfetto dualismo che compenetra tutta l'opera, costantemente in bilico tra sogno e inquietudine. C'è poi la struggente saudade di Metamorfosi, intensissima ballata dal sapore sudamericano e un'altissima prova di cantautorato italiano d'annata. Terzo gioiello e culmine assoluto è La ballata dell'angelo svogliato, apice intimista e introspettivo, l'atmosfera è ancora onirica ma greve, nel buio di una notte insonne una serafica visione, ma anche gli angeli non hanno più risposte da dare al dolore, allargano le braccia sconfortati. Fanno capolino qui e là sonorità disco, come in Argo soltanto o Nel vostro quartiere, forse i pezzi che risultavano particolarmente ostici ai primi ascolti, ma che alla lunga convincono per gusto e raffinatezza, contribuiscono a dare all'opera quel tocco di eleganza e leggerezza e quel retrogusto seventies che non guasta affatto. Convincono anche l'incalzante pop nichilista di Niente, la filastrocca epica e un po' barocca di Pilù Pilò e la toccante Magioel, tra memorie di guerra e di amori sbocciati in ospedali psichiatrici. Poco incisiva è invece la parte finale del disco, l'easy listening di Io con te spezza la tensione emotiva ed annoia, idem per Una canzone banale così come per la chiusura un po' anonima affidata a Camicie azzurre, monotonia spezzata solo dal bell'omaggio a una prosperosa Messina del trecento soffocata dalla terribile peste del 1348 in Ballata della città felice. Nonostante il calo di tono conclusivo Il silenzio del mondo è un lavoro complessivamente ben strutturato e congegnato, ma soprattutto molto ispirato, nato non per esigenze contrattuali o discografiche ma come un fiore spontaneo e di una bellezza incontaminata, lo ripeto, da qualunque fighetteria modaiola, un disco che ascoltiamo oggi e che potremo tranquillamente ascoltare tra 30 anni senza sentirne il tanfo di stantio. Ancora una volta onore al merito di Snowdonia per aver strappato dall'oblio ed averci riconsegnato un tassello importante della nostra storia musicale. (7/10) |