Zweisamkeit è una parola tedesca, una di quelle che non hanno un traducente in italiano, un po' come lo Spleen francese. Zweisamkeit dovrebbe significare qualcosa tipo “stare insieme, in due, in armonia”, una solitudine doppia, una “duetudine”, bastare a se stessi, due mondi che si isolano per fare un unico mondo.
Già il nome ci parla di non appartenenza, di mancanza di equivalenti, di corrispondenti. Ci dice già tutto. Quello che gli Zweisamkeit sono. Ispirato all'opera omonima di Ezechiele Leandro, Il santuario della pazienza è un album sicuramente atipico, difficile da definire, infatti nel loro blog scrivono: “Dovendoli inserire in un genere a tutti i costi potreste dire che fanno art-rock, avant-pop o indie, tanto direste comunque tutto e niente.” Questo trio salentino, composto da Silvio Stefanizzi, Alessandro Matteo e Daniele Ferrante, ci presenta un album che è un percorso spirituale, una descrizione degli elementi umani e disumani della città, della quotidianità, prendendo sostanze di altri e infilandoli nel proprio sentire, un susseguirsi di suoni e sensazioni che premono dentro, che si insinuano come dubbi, come memorie indelebili. Il primo brano, Limiti urbani , è l'unico cantato. Seguono gli altri brani in un adombrarsi di tumulti interni, una specie di macchina che ci tiene legati con fili elettrici che ci tengono svegli, che ci spalancano gli occhi, ci fanno vedere meglio, ci fanno vedere il vero.
Gli Zweisamkeit non devono leccare i piedi a nessuno. Non devono piacere a nessuno. Non sono nati da un'estetista del suono, non hanno protezioni né limiti. Hanno il fiato, le mani e la personalità, che sembra una parola scaduta, invece è solo abusata. Semplicemente non appartengono. Non si lasciano assorbire. Un disco che quest'anno emerge tra i migliori in maniera evidente, un'altra importante dimostrazione del fatto che dalla Snowdonia non esce mai nulla di scarso o di sufficiente, ma perle di rara qualità. E soprattutto la dimostrazione che la musica italiana non è morta. C'è ancora chi la mantiene in vita con la propria vita.

Luciana Manco