A chi cerca facile evasione nella musica non consigliamo l'ascolto de ‘L'Isola' concept-album di Le Forbici di Manitù, duo composto dallo storico critico musicale Vittore Baroni e Manitù Rossi, sulla scena musicale da quasi vent'anni. Il full lenght, costituito da tredici brani, si avvale della collaborazione di Daniele Carretti ed Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax ed è tratto da un racconto inedito di Alda Teodorani allegato al CDed illustrato dalle tavole in bicromia di Emanuela Biancuzzi, peraltro, complementari a tutto il lavoro quanto efficaci ed inquietanti. L'album è un inno orfico, parafrasando Campana, come nel brano: ‘Dal Profondo': “Donne bianchissime dai lunghi capelli e corpi iridescenti coperti di squame, frugan tra i resti di antichi vascelli” , che ricalca tempi e modi inconsci, azioni inespresse. Crepuscolare, oscuro, quasi di impronta wave. La nenia del “surrogato di sesso” denunciato in ‘Fame' si attacca ai nostri sensi alle nostre paure travestite d'amore, ai vestiti dismessi, trasudanti rimpianti e scelte sbagliate. Minimale, spigoloso, a cavallo tra industrial, ambient, ricerca musicale e kraut-rock, con una strizzata d'occhio al cantautorato più colto, si dispiega fra cantato-recitato talvolta corale e tonalità minori fra le onde che circondano l'isola umana. L'introduzione è affidata alla voce narrante della Teodorani che compare anche negli intermezzi declamati e ad una trasposizione del tema dell' “Isola Dei Morti” di Sergei Rachmaninoff. Poetico, magico, crudo e visionario, contraddittorio come l'amore. La storia cui fa perno tutto il full lenght è quella di una coppia che cerca di ritrovarsi approdando su di un'isola, ma a sorprenderli saranno solo le macerie della propria esistenza fra luci e spettri interiori. La composita ensemble plasma, come da perfetta colonna sonora, le sagome della coppia che tenta di salvare il proprio amore senza salvificazione. Le Forbici di Manitù e Alda Teodorani sembrano quasi sottendere che nelle relazioni c'è sempre qualcosa di irrisolto, o, meglio, di “malato”. Lessicalmente ricco, liricamente maturo, musicalmente suggestivo nella sua spaventosa epifania di verità: “Non dimenticherò mai il fetore di quel cadavere. È lo stesso fetore che ho sentito stamattina sulle tue labbra, quando mi hai detto: Oggi si parte, amore mio”. (4/5) |