"Balera metropolitana" è il nuovo disco dei Maisie. Ah beh, chisseneimporta, direte voi. Eppure chi ha avuto modo di seguire lo splendido percorso dei messinesi sa benissimo che si tratta - senza esagerazioni o forzatura alcuna - di una delle band di vertice della musica italiana degli anni Duemila. La poetica, musicale e non, dei Maisie è quanto di più lucido e personale si possa trovare in giro (oggi fanno il paio giusto quei Uochi Toki con il loro "Libro Audio" di qualche mese fa).
Il loro "Morte a 33 giri" s'era affermato quale instant masterpiece grazie alla capacità di sussumere l'ultimo paio di decenni musicali in una giostra melodica in grado - di fatto - di creare un nuovo standard di canzone italiana. Ovviamente se ne sono accorti in tre: gli altri erano troppo impegnati a tentare di sviscerare le difficili metafore dei Baustelle.
Fatto sta che, esaltata dalle lodi sperticate di quei tre nonché dalla consapevolezza dei propri mezzi, l'ambizione dei Maisie ha finito col travalicare ogni senso del pudore. Il nuovo "Balera metropolitana" è un mastodonte di 44 brani, un doppio album di due ore e mezza, in cui viene disperso ogni dono della sintesi per affondare le lame degli sguardi in quante più sfaccettature possibili. Sostanzialmente sono canzoni atipiche, in cui anzitutto si segnala un uso massiccio e ben più strutturale dell'elettronica, e nelle quali viene schiantato ogni sorta di genere (e/o di ballo).
Dalla polka alla techno, dal folk all'hard-rock: tutto viene invaso da arrangiamenti iper-espressivi e presta l'ossatura a costrutti mutevoli, che si basano su intuzioni melodiche sovente anche d'impatto ma pur sempre intente a evitare di suonare prevedibili. L'estrema varietà musicale viene riportata in coesione dal sostanziale duopolio tematico: l'amore e la morte.
Lo sguardo sbarazzino e dissacrante con cui i Maisie analizzano l'uomo, raccontandone e interpretandone i comportamenti, fotografa sostanzialmente i suoi motori principali. La morte è ben più di un'ossessione: è il pane quotidiano. I Maisie ammazzano con irriverenza: muore Cristicchi ("Quando morì Cristicchi"), muoiono le donne eleganti ("Mururoa all'europea, tutti quanti noi mariti trasportiamo l'isolotto qui nel vecchio continente e leghiamo le nostre mogli strette strette ai palmizi" da "L'amore in città"), muore una sposa ("Il giorno più bello della mia vita"), muore *** ("Gonfio come un canotto, freddo senza giubbotto, produce musica, il corpo morto di *** produce musica" da "Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di ***?"). I Maisie ammazzano con crudezza: strangolato il discotecaro ("Ultima discoteca in città"), usata come concime l'intera specie umana ("Mi piace immaginare un pianeta popolato da piante e cadaveri. Tutti morti: da chi si impegna nel volontariato fino a chi piange per i soldati caduti in guerra" da "Piante e cadaveri").
Ed è proprio questa, l'umanità, la protagonista della "Balera metropolitana", con tutte le sue deficienze, con tutte le sue ottusità, con tutti i suoi, condivisibili o meno, sogni. Simbolo ne è la riesumazione tanto di quel "fenomeno Repetto" - con una deliziosa e tirata versione elettro-pop di "Voglia di cosce e di sigarette" - quanto di un Pippo Franco d'annata ("La licantropia"), ambedue cover divinamente intepretate da quel capolavoro di non-cantante che è Cinzia La Fauci.
I Maisie riescono a cesellare i loro ritratti con perizia chirurgica: splende la Teresa della title track - un italodisco con tanto di solo rock nel finale - ma non sono da meno l'accompiamento da weekend di "Sabato Suicide" (una danza per percussioni, violino e fiati) o la neofita del porno della techno "Maria" ("non era che sesso asettico, plastificato, consumato in ambiente profumato, ben areato, lindo, sterilizzato").
Qui e lì, nel frattanto e tanto per gradire, viene piazzato un considerevole numero di irresistibili divertissement : spiccano fra gli altri il folk battagliero "Hanno ammazzato un bambino", il folle motivetto surf "L'amore in città" e il circo impazzito di "La banana e il parassita". Gli strumentali gigionano fra i generi ancora di più: capita di trovare un hard-punk-disco-qualcosa ("Andavo a 100 all'ora"), un carosello tetramente ispirato a un noto serial killer ("John Wayne Gacy"), finanche un noir-funk ("Frate mitra").
Nel marasma non finisce per essere persa la cristallina classe con cui i Maisie sanno scrivere canzoni tout court . Lo testimoniano due gioielli come "Ballata tristissima" e "n. 79 - ISTITUTO MARINO (Via ortopedico)", di cui è presente anche una splendida versione acustica di Mario Castelnuovo.
Contributo, quello di Castelnuovo, cui si aggiungono quelli di Flavio Giurato (con l'intensa e travagliata "Ivana e Gabriella"), di Amy Denio (che canta quattro brani che c'entrano poco col resto ma dal grande sapore evocativo, "Si sveglia" su tutte) e di una pletora di musicisti del sottobosco indie nostrano. Certo, probabilmente neanche questi Maisie riescono a reggere con brillantezza totale l'intera durata del disco e verso il finale compare qualche colpo non proprio centrato ("Pelato, sì, ma con la brillantina", "Mogol e Panella", "I gatti matti") ma non si va oltre il peccato veniale.
La strabordante prosa dei Maisie alla fine convince, e convince parecchio. Il pessimismo cosmico che emerge dalle conclusioni finali ("Una volta credevo che dentro ogni uomo ci fosse un piccolo universo, e invece non c'è niente da scoprire nella gente" da "Niente da scoprire") è il prezzo da pagare alla incontenibile vivacità e all'insaziabile voracità artistica di Alberto Scotti e del suo collettivo. (7,5/10)
Ciro Frattini |