Di questo disco hanno scritto di tutto tutti. E chi ne voleva già sapere ha già saputo, e chi non voleva affari suoi. Noi arriviamo in ritardo, in ritardissimo, perché invece di scriverne Balera Metropolitana lo abbiamo ascoltato, ne abbiamo ingerito a larghe manate la pasta emozionale – gommosa, spasmodica, agghiacciante –, abbiamo pianto quando volevamo piangere, abbiamo riso quando volevamo ridere, e abbiamo soprattutto ballato.

I Maisie e il loro White Album, quattro anni dopo il preannuncio di “Morte a 33 giri”: canzoni quante ne volete, belle pure, sintomo di una fantasia inarrestabile, sconclusionata, indolente, ma lucida. Si balla qui, si balla e si va a fondo, su cadenze italo-disco, new-wave poppeggiante e plastificata, melodismo nazionalpopolare a raccontare il degrado popolarnazionale di un Paese in cui la vita reale è fiction e la realtà è Cronaca Nera, Novella 2000, Verissimo e Barbara D'Urso, perché hai voglia anche tu ad essere come lui, a quell'età, tutte le donne che vuole, lui che ce l'ha fatta, lui che se le è fatte.

In questo Paese dove ci si strappa le vesti perché uno come Morgan – strafatto prima di sé stesso che di crack – non può andare a Sanremo mentre nessuno dice nulla che un altro come Paolo Benvegnù fatichi ad arrivare alla fine del mese, i Maisie sono il corto circuito che ti aspetti, la scossa tellurica che fa emergere lo schifo dal sottosuolo, la scoria immangiabile plasmata dall'anima nera e parruccata di noi popolo dio-patria-famiglia (moglie, due figli e trans a carico). Non è gusto del trash, non è derisione dell'immondo con atteggiamento di sufficienza, ma è la spazzatura che si cristallizza, la derisione che si fa conato, lo spirito dei tempi che non vorresti respirare ma che invece sei tu.

Difficile scegliere quale brano sia migliore e quale meno tra tanto ben di dio raro in Italia (ultimamente solo Dargen D'Amico ha scritto così tanto e così bene, e tra i due un filo rosso c'è, quello di un freak-pop mescidato, che si riproduce dalle influenze immagazzinate come materia organica viva, obliquo più che laterale, mille anni avanti è ovvio). Questo è un disco dove immergersi e sporcarsi per uscirne puliti, come entrare in un mondo che ti appare sconosciuto e scoprire che in realtà stanno parlando di te.

Tuttavia alcune segnalazioni sono d'obbligo: la cover di Voglia di cosce e sigarette di Mauro Repetto come apparente manifesto programmatico, una Quando morì Cristicchi nient'altro che condivisibile e catartica (basta questi cantautori intelligenti, col loro coso in mano, e noi a sentirci i più migliori perché li ascoltiamo), n. 79 – Istituto Marino (via Ortopedico) nella splendida versione dell'ospite Mario Castelnuovo e soprattutto Ivana e Gabriella, pangea autoriale nata dall'incontro di due continenti poetici: quello quotidiano e terribilmente iperreale dei Maisie e quello inquieto, surreale poiché neorealista di Flavio Giurato:

«“Gabriella, pensieri del genere non finiranno mai nelle canzoni come quelle di Antonacci...”
“Mortacci s'è fatta na certa, annamo”
“Cazzo, che bella la luce dell'alba! Cazzo, che bella la luce dell'alba!”
“Brava Ivana, questa frase ce la vedo in una canzone di Antonacci”
“Brava Ivana, questa frase ce la vedo in una canzone di Antonacci”
“Mortacci quanto ti amo!
”».

Ed è inutile che urliate capolavoro e vi facciate belli agli aperitivi decantando le lodi di questa Balera. Stiamo parlando proprio del Declino, non c'è niente di cui gioire, statevene almeno zitti. (4/5)

Luca Barachetti