Quanto è importante al giorno d'oggi apparire rassicuranti?
Per rispondere, avanziamo per gradi: la simmetria è rassicurante, così come il senso estetico di bellezza “formale”, che tra l'altro non esclude di per sé il concetto di simmetria.
Fare musica che si presti ad essere catalogata entro un determinato genere musicale è indubbiamente rassicurante, soprattutto per quella presuntuosa cricca di giornalisti musicali che credono di poter riassumere con poche parole le fatiche, le ambizioni, le frustrazioni e le urgenze dei musicisti.
Sono indubbiamente rassicuranti le canzoni che parlano di sole, cuore ed amore, così come i film a lieto fine che abbiano una bella colonna sonora strappalacrime, soprattutto per le tipe romantiche: guarderebbero fino alla fine anche un film porno, in attesa dell'immancabile bacio finale.
Adesso procediamo per esclusione: una canzone senza ritornello che si trascina stancamente alle vostre orecchie come una litania non mi pare molto rassicurante, soprattutto se viene cantata da una cantante che fa di tutto per non sembrare tale.
Fare una cover di “Licantropia” di Pippo Franco ed inserirla nel vostro ultimo disco può sembrare una scelta geniale ma non invoglierà certo il cosiddetto “ascoltatore medio” ad acquistare il cd.
I tempi che stiamo vivendo vi sembrano forse rassicuranti oppure sono una malvagia riedizione in tinte fosche e tecnologiche dell'età della pietra?
E che dire infine della morte, la nostra cara e tanto amata spada di Damocle, con cui ci dobbiamo per forza di cose confrontare giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo: non vi pare forse l'archetipo delle nostre paure ancestrali, di tutte le nostre ansie, il riassunto perfetto di ciò che vorremmo scansare con tutte le nostre forze?
Eccoci dunque al nocciolo della questione: secondo voi mettere sul mercato, con i tempi che corrono, un doppio cd che parla tanto di morte e poco di sole, cuore e amore, che contiene al suo interno ben quarantaquattro canzoni, molte delle quali schivano con maestria il concetto canonico di “forma-canzone”, tra cui una cover di “Licantropia” di Pippo Franco, cantate da una cantante che non sa di esserlo e che spaziano tra mille e più generi musicali, fregandosene delle beneamate “regole del mercato”, può in qualche modo essere definita un'operazione “rassicurante”, soprattutto per chi la mette in pratica?
Eccoci: la risposta, che non ammette repliche, è no, categoricamente no, assolutamente no, maledettemente no (e se qualcuno a questo punto avrebbe risposto di sì, abbia almeno il buon gusto di  smettere di leggere questa recensione).
I Maisie sanno perfettamente di aver dato alla luce un disco “fuori dalle regole”: l'hanno fatto deliberatamente, perché in cuor loro hanno capito che si può (e si deve) produrre arte anche e soprattutto in tempi poco definiti ed oscuri, proprio come quella favola di Gianni Rodari in cui c'era quella splendida tipa che riusciva a fare una deliziosa marmellata con qualsiasi ingrediente, ed in assenza di materia prima la faceva pure con l'ortica.
In fondo c'è sempre bisogno di qualcuno che ci prenda per la collottola e ci faccia capire in che cazzo di fanghiglia ci siamo impantanati, che riesca a disegnare un volto e a dare un nome a questi tempi in cui viviamo: c'è una colonna sonora per tutto, anche per questi giorni così strani, per questi “cazzo di anni zero”, come direbbe il buon Vasco Brondi.
Ne è venuta fuori un'opera mastodontica, una luccicante giostra di suoni, colori e sensazioni: uomini e donne di varie razze, senza limiti di età, si prendono a braccetto e iniziano il loro ultimo giro di danze, facendosi beffa dei mostri che si tengono dentro e che per una volta possono anche rimanere a dieta.
I Maisie ci coinvolgono in questa loro geniale messinscena dell'amato Belpaese dall'anonimo doppiozero, ci prendono per mano e zoomano al contrario, chiedendo il permesso di giocare per un attimo con le nostre esperienze e azionano gli ingranaggi del loro incasinato “Google Maps”: ne esce fuori un'altra realtà, ben diversa da quella in cui credevano di essere coinvolti, milioni di noi come miseri puntini neri dispersi nelle galassie dell'iperspazio, tutti contro tutti e allo stesso tempo così disperatamente alla ricerca di qualcosa, di qualcuno, di un barlume di felicità.
Rimangono solo pochi punti fermi e due/tre bizzarri flash di vissuto quotidiano, che si mischiano alla trama di un film di culto, in un beffardo tira e molla tra finzione e realtà: nell'inferno seducente di Villa Certosa alcuni dinosauri si tolgono il bavero e si lustrano l'anima succhiando gocce di  miele dalle deliziose pupe del Papi, al ritmo di “Voglia di cosce e di sigarette” di un redivivo e mai così ammirato Mauro Repetto (la metà sfigata degli 883) , mentre alla festa dell'Unità del Paese, un giovane  Cioni Mario danza la sua “Balera Metropolitana” avvinghiato ad una grinzosa settantenne molto tirata a lucido ma mai abbastanza, poco prima che  l'altoparlante si metta a gracchiare a tutti i presenti, senza alcun pudore, che il suddetto signor Cioni si deve recare con urgenza alla cassa, in quanto sua madre è morta. Tutto questo mentre le amache dondolano placide di fronte a un mare commosso che rilascia lacrime salate, stregato pure lui dalla voce poetica di Mario Castelnuovo e dalla sua immensa versione di “n.79 ISTITUTO MARINO (Via ortopedico)”.
Viviamo tempi oscuri e incasinati: per questo la provocazione dei Maisie diventa irresistibile.Un luccicante giro di giostra, lungo abbastanza per poterci distrarre da quella che noi miseri umani continuiamo a chiamare vita, ma non abbastanza per lasciarci intuire qualcosa di più: l'impressione è quella di vedere dall'alto milioni di fantocci viventi che rufolano disperatamente tra tonnellate di immondizia, sotto un sole rassicurante che splende ed uccide.
Balera Metropolitana” non ci schiarirà certo le idee, ma porterà una sana ventata di freschezza alle nostre orecchie, assetate di suoni, colori e ricordi dolciastri, nel mezzo alla bufera.

Massimiliano Locandro