Riassunto delle puntate precedenti. Dopo essere stati, coi primi due album, qualcosa come i Residents-Half Japanese-Royal Trux dell'indie italiano, con un post-pop ultradada, ottantino nei suoni, artigianale, fatto di stralci-stracci di canzoni divertenti e casiniste, ma soprattutto inquietanti quando addirittura non morbose, i Maisie (from Messina, Sicily) hanno cominciato un percorso di "scrostamento", ricercando una sempre maggiore leggibilità pop, prima con le sbilenche riletture cameristiche affidate ad altri di Music is a fish defrosted with a hair-dryer (2002), poi coi gioiellini underground lollipop di Bacharach for president, Bruno Maderna superstar! (2003), fino alla svolta di Morte a 33 giri (2005), col passaggio all'italiano, puntate in un suono (anche) anni Novanta, una concentrazione su materiali e modi (anche) cantautoriali.
Questo Balera rischiava forse di diventare lo Smile dei Maisie, e invece eccolo qua, a quattro anni dall'inizio delle registrazioni, e registrato a spasso per l'Italia, doppio, fluviale, infinito. Alberto Scotti lo dice col mezzo sorriso nelle note stampa, ma è proprio vero: mai come adesso, che si fanno montagne di dischi e si scarica a manetta e non c'è tempo per fare nulla figuriamoci ascoltare bene un ciddì, ha senso uscirsene con un pachiderma di centocinquanta minuti, un lavoro pensato, progettato, curato, e poi vissuto e sudato, un disco che richiede attenzione. Quello che ci manca. L'impressione è quella di un pezzo (di pezzi) di vita (di vite) messo in musica, riversato su plastica, un qualcosa di organico, di vivo, ma soprattutto di vitale.
Balera è un disco pop: cantautorato, canzone italiana anni Sessanta, pezzi danzerecci, in senso lato, strumentali circensi, altri cameristici, altri pacatamente elettronici. Grande cura per gli arrangiamenti (che sappiamo essere croce e delizia di Alberto), la voce di Cinzia La Fauci che è ormai quella di una matrona indie, un suono che ancora una volta è artigianale e ghiottamente demodé. Un disco che parla soprattutto di musica: Cristicchi morto sotto canto gregoriano, Zorn, Mogol e Panella a confronto, l'ultima discoteca, festival su festival, stereo e cassette, Antonacci, gli Who, Bugo e Lou Reed, un rapper che parla male della Coca (Cola), un musicista (i musicisti) che tira a campare. Poi, i soliti ospiti illuminanti: Amy Denio, che qua e là scrive, canta e suona sax e clarinetto, Flavio Giurato, che scrive e canta Ivana e Gabriella, Mario Castelnuovo, che passa al suo trattamento la già bellissima n. 79 - Istituto Marino. Due cover geniali (e, anche qui, illuminanti): una Voglia di cosce e di sigarette di Mauro Repetto ("il biondino degli 883") che parte come una Maniac fatta dai Devo e diventa un electro-pop al martello pneumatico, e una fedelissima Licantropia di Pippo Franco. Dicevamo, si parla di musica, ma di musica si parla anche senza parole: Balera Metropolitana, dance Ottanta plasticissima, guarda forse a Diana Est (un culto), La centrale nucleare al Camerini di Gelato metropolitano, Maggici ai mitici Wolfango, Miaostelle microparodizza invece palesemente i Baustelle. Girandola di riferimenti a livello di generi: dalla colonna sonora b-horror kung-fu, a cose house, a soft-disco-funk (con coda scat), tanto electro-pop, e poi blues, e anche punk-rock, fino a oggetti mistilingue e affascinanti, come i pezzi cantati dalla Denio. BELLO. (4/5)
Gabriele Marino |