Continua imperterrita la ricerca di nuovi talenti da parte di Snowdonia. Dopo il popnervouswave dei Masoko, l'attenzione si catalizza ora sull'esordiente Franco Naddei, in arte Franco Beat. Il suo "Vedo Beat", ancor prima che un disco, è un viaggio nell'intera cultura beat: poesie, pensieri e articoli dell'epoca (faranno la loro comparsa testi di Marcello Marchesi, Ennio Flaiano, Silla Ferradini, ma anche brani senza autore: il grosso di tutto ciò è preso da "Mondo Beat", Ed. Stampa Alternativa) si alternano infatti ai brani, ispirati proprio ai passi che li hanno preceduti.

Il racconto di Naddei è mosso da un afflato sincero, che non si pone come obiettivo un'analisi profonda, ma vuol semplicemente far chiudere gli occhi e tornare (o andare per la prima volta) in un passato, che, pur vicino, appare lontanissimo. In più viene trasmesso con passione "misurata", omaggiante più che celebrativa, animata da un senso di sconfitta che pure non è mero vittimismo: l'operazione intellettuale, in pratica, si toglie la patina d'intellettualismo e risulta così vincente. Questa la doverosa premessa e prima analisi. Fatto sta che, comunque, qui si parla di un disco, di musica, ed è su di essa che bisogna soffermarsi con maggiore considerazione.

La formula musicale scelta è quella di un rock basilare, parecchio influenzato dalla sua nazionalità (e quindi dalla melodia italica), tecnicamente povero ma che fa di difetto virtù, andando a cesellare canzoni gustose proprio grazie alla loro semplicità. Per evitare l'effetto-confusione, poi, i brani variano un pizzico la loro cifra, flirtando a volte con la wave , a volte col jazz, a volte, soprattutto, con il punk-rock (che forse, assieme al pop, è l'attitudine maggiore dell'autore). Il parallelo che più va ad adattarsi è forse quello con gli Afterhours, pur tenendo presente le debite differenze (il target e gli obiettivi sono diversi; Franco Beat cerca di suonare come una band ma non è una band e quindi gli strumenti singoli suonano più primitivi).

Il biglietto da visita è la filastrocca "4 omini e 4 gatti", svelto rock vagamente wave, melodica il giusto, la chitarra che dona un suono spasmodico, le cesellature di elettronica a donar colore sullo sfondo senza essere invasive. Una presentazione intrigante, ma non eccelsa: andrà meglio più avanti. Più avanti significa l'amara e rilassata "Ricami di bile" ("vedo nel volto degli altri passare i miei anni, vedo passare i più scaltri soltanto ai miei danni. A che i rimbrotti? A che le grida? Datemi una buona dose di polvere insetticida…" recita il bel testo), che rapisce con le sue venature jazzy ; significa il piglio punk del giocattolo "Sfasciare delle macchine in giugno", animata da un filo di synth e un piano rock'n'roll (che, invero, poteva avere più spazio); ma soprattutto significa il vivido e pulsante numero ultra-pop di "Amore utilitario", rubato dagli archivi dei Maisie , recitato alla perfezione con azzeccatissimo uso della doppia voce (modificata) in controcoro. Un vero e proprio piccolo gioiello.

Nel frattempo vengono presentati i frammenti letterari: dalle "lamentele dei capelloni" (Paolo Bugialli ne "I capelloni si lamentano"), ai "vecchi poeti che han consumato le belle parole" (Carlo Silvestro in "Imprecazione N°14"), attraverso i "burloni che provocano incidenti stradali" (Marcello Marchesi in "L'inizio di un film"), sino a i grandissimi "quattro giovanotti disertori della vanga che con il loro jazz fanno impazzire mezza Europa" (i Beatles, secondo una esilarante lettera al direttore). Naddei recita i passi in modo impeccabile, e forse la sua recitazione è superiore al suo canto: la sua bella voce infatti non sempre trova un'interpretazione adatta "da cantante".

Se sono comunque le scosse punk che animano i pop-rock del disco a far da collante del lavoro in modo oscuro ed egregio ("Un libro"; "Una volta ancora"), i pezzi "diversi" servono a elevarne la statura: così avviene anche nel caso del brano di chiusura, l'accorato, toccante (e spietato: "credevo che il furore del tuo sangue non cessasse mai"; "credevo che il furore delle idee non ti lasciasse mai") omaggio alla adolsecenza della giostra pop "Cresci?".
Infine, come bonus-track , vengono aggiunti altri tre pezzi un po' alieni alle tematiche sonore e testuali del disco: l'estrosa sarabanda elettronica di "Sistemo tutto", il divertissement (in zona Elio) di "In un'orgia", con organo e chitarra scandita e, il migliore di questi, la psichedelia malata di "Tempi acidi".

Degnissima chiusura dunque per un disco che, discorso storico-letterario a parte, mostra una qualità media abbastanza buona (i pochi picchi sono equilibrati da qualche brano sottotono o fuori fuoco: "Ciao caro"; "L'elastico"), con evidente presenza di un certo talento musicale (magari elementare, dato che parliamo solo di senso melodico e senso rock ) seppure ancora un po' acerbo e da affinare.
Un progetto riuscito, che merita curiosità. Lo sguardo ora va al futuro: archiviata la tematica del disco cosa farà Naddei? La carineria dei suoi brani riuscirà a toccare vette più alte? (6,5/10)

Ciro Frattini