Quale ridanciano impasto di
veleni e detriti! Quale limaccioso stridore, proprio lì, sul nervo
scoperto, nell'ansa in cui l'onda di piena ha depositato le scorie, e che
il riflusso porta infine alla luce! Ma che bel brodo primordiale, lasciato
crogiolare a cielo aperto, con le carcasse delle modernità a far
bella (!) mostra di sé, moribonde e fibrillanti e decomposte. Il
secondo lavoro dei Larsen Lombriki è la colonna sonora di tutto il
mondo, questo mondo, come la scriverebbe un rockettaro esaurito alle prese
con visioni sature di disgusto & disprezzo: la sua calligrafia sarebbe
rock penetrante, aspro, nocchiuto. Lame rugginose a tagliuzzare il ventre
i polsi e gli occhi, gli scabri singulti del Pop Group
(Carry on devoted forced laughs, Ballad of the bleeding men),
l'agghiacciante sordidezza dei Suicide (Honey),
l'assalto animalesco dei Velvet più scellerati stemperato
Pere Ubu (Kosouth youth) o Brian Eno
(Anytime), una rasoiata in obliquo attraverso una poltiglia di
fantasmi Devo, Joy Division e Jon
Spencer (Stupid rock'n'roll). La new wave insomma è il cuore nero dell'antro, e a farle compagnia è il rimbombo del rock che più ha cercato di gettare il disagio oltre l'ostacolo d’un presente inaccettabile: il garage, il noise, il kraut, le sfuriate lucide e disarticolate dei Royal Trux, la nostalgia intossicata e beffarda dei Cramps, la psicosi febbrile dei Talking Heads, il torvo delirio di Tom Waits, il depistaggio sistematico dei Residents. Frammenti, schegge e brandelli di un discorso/disanima che s’accartoccia e distende, implode giusto un attimo prima d’esplodere, si rannicchia nella tana dopo aver scoperchiato il vaso di Pandora. Già, perché in questa sbrigliata introspezione, in questo sdegno disinvolto, sembra nascondersi il senso stesso di una rivoluzione atrofizzata, come se non esistesse neanche la possibilità di una strada, solo macerie meno tollerabili agli occhi che ai piedi che le devono calpestare. A questo punto, ci credereste che si tratta anche di un disco simpatico? Che una patina di comicità lo ricopre come un lenitivo? Che viene pure da sgambettare e fare su e giù con la testolina? Sì, perché non manca ai Lombriki il senso del ridicolo, dell’insensatezza salvifica, della patafisica illuminante. Una “leggerezza” pescata nel ventre stesso del disincanto, nel fondo della più fredda disperazione. Come se ci fosse sempre qualcos’altro cui appoggiarsi, cui rimandare l’atto vitale. Il colpo di reni, il palpito fisiologico. E a qualcos’altro sembra infatti alludere questa congrega di visioni, forse a quelle stesse “visioni” che compongono l’esposizione Undergrrround nightmares, che costituisce l’evento gemello e parallelo a questo disco. Cercatene un assaggio nel loro sito, v’imbatterete negli incubi più amabili e familiari che vi siano capitati di recente. (7.1/10) Stefano Solventi |