Ignorare ciò che, almeno
teoricamente, potrebbe risultare “sperimentale” è, oggi
come oggi, un lavoro arduo e problematico; ignorare chi sperimenta, chi
riesce a regalare nuove emozioni, nuove idee, è praticamente impossibile.
Sarebbe, così, inammissibile rinunciare ad un approccio verso i Larsen
Lombriki, band romana che, dopo aver esordito cinque anni fa con “Glad
To Be Here”, bissa grazie anche a quella stretta collaborazione
fra la Snowdonia Records e il Rotor Audio Club. Sebbene ci abbia messo del
tempo ad afferrare il concetto artistico dei sei romani, il nuovo album,
“Free From Deceit Or Cunnings”, potrebbe facilmente
essere considerato come uno dei lavori discografici più completi
degli ultimi mesi. Pur essendo accecato dall’incredibile ingegno della band, ho impiegato diversi giorni nel comprendere le idee e le influenze musicali dei Larsen Lombriki che, con una smisurata facilità, impastano e ingoiano il kraut-rock dei Can e dei Neu! (“Ocean” e “Returning To My Own Bed”), la no-wave dei Devo e Pere Ubu (“Kosuth Youth”, “Cane Nero Del Congo” e “Happy End”), l’acido pop psichedelico di Barrett (“Birdsong” e “Polyplastic”) e il rock’n’roll dei Velvet Underground (“Time For Love” e “Anytime”). Venti tracce impreziosite dall’uso, “smodato e balordo”, di sintetizzatori che, coinvolti nell’ironia bislacca e instabile della band, modellano e delineano un album alquanto ostico nei geni. “Free From Deceit Or Cunnings” è la conferma di un gruppo che, pur avendo alle proprie spalle un solo album, dimostra notevoli capacità tecniche, capacità site nel sapere giostrare, a proprio piacimento, quei diversi generi musicali precedentemente citati. Abili giocolieri dell’elettronica più stramba, i Larsen Lombriki si confermano una delle band più promettenti del nuovo millennio. (8/10) Francesco Diodati |