Anche in Italia possiamo vantare dei piccoli miti da sottobosco musicale. Uno di questi vive a Roma da qualche anno, manifestando la propria esistenza con uscite discografiche saltuarie, anzi magari anche frequenti, ma sotto identità (inventate spesso in maniera estemporanea) sempre diverse: quello di cui scrivo è il secondo album (dopo "Glad To Be Here" del 1999, e sempre per Snowdonia) a nome Larsen Lombriki.

E che musica fanno questi Lombriki? Il sito della Rotoraudio, la loro etichetta di produzione, elenca una pletora di gruppi e canzoni (scaricabili), in realtà tutte facenti capo allo stesso gruppo di persone. Depistaggi veri e propri, gruppi e dischi inventati e altre prese in giro riconducono questo anomalo collettivo a una filosofia di stampo residentsiano, e il frutto musicale che ne esce è ambiguo, in quanto i nostri non fanno mai capire se le loro intenzioni sono davvero serie, nell'accezione comune del termine, o meno, elaborando una forma di non-manifestazione di intenti, o manifestazione di non-intenti, che riesce sempre a spiazzare l'ascoltatore. All'atto pratico, ascoltando il loro disco ci si ritrova lì per lì col sorriso in bocca, ma subito dopo vien da pensare che forse stai facendo la figura del fesso; e viceversa, in un potenziale corto circuito: un oggetto che, da qualsiasi parte lo si guardi, restituisce una prospettiva distorta.

La musica dei Larsen Lombriki è palesemente il risultato di più menti eterogenee: ne risulta una proposta multiforme e imprevedibile. "Free From Deceit Or Cunning" si compone di 20 brani per circa un'ora di musica e, al di là delle precedenti considerazioni, contiene una musica abbastanza eterogenea, nonostante le idee sembrino dispiegarsi in maniera meno dispersiva rispetto al disco precedente e il suono sia complessivamente più aggressivo: cut-up di elementi a volte in antitesi formano così farsesche musiche da piano-bar ("Skilled At Something"), proiettili aggressivi a cavallo tra Chrome e Cabaret Voltaire ("Kosuth Youth"), spassosi blues da saloon "Happy Hyped Hippy (With A Whip)", pillole di new-dark (perfetta in tal senso "Anytime"), martellamenti insistiti electro-industrial alla Suicide ("Honey"), finto post-rock, schegge di kraut-rock ("Can You Imagine Me"), scampoli di blues che si riflettono in specchi deformanti da luna-park su cui aleggia l'ombra del capitano, il tutto concluso con una cantilena che sfuma in un finale da comica alla Ridolini, ultimo sberleffo rivolto all'ascoltatore.

La musica viene giustamente rappresentata anche dalle immagini contenute nel disco: montaggi mostruosi ma famigliari e simpatici allo stesso tempo, o completamente privi di senso. Potrebbero ritrarre noi ascoltatori: mostruosi quando - troppo spesso - ci illudiamo di capire e catalogare, fino a che non ci imbattiamo in lombriki capaci di smontare qualsiasi pre-giudizio. L'indelebile fil rouge è quella sensazione di straniamento e alienazione, che farà sempre guardare a questo disco sullo scaffale con simpatia o timore, e poi ancora con simpatia e poi timore…e chi rischia di più è proprio chi si convince di averci capito qualcosa, come chi vi scrive. (8/10)

Paolo Sforza