I Larsen Lombriki, che nulla
hanno a che spartire coi torinesi Larsen, sono una di quelle sfuggenti entità
il cui rapporto con la parte più visibile della scena e con l’industria
discografica può dirsi quantomeno problematico. Attivi dal 1997,
nascono come braccio musicalmente armato di movimenti artistici di più
ampio respiro, facenti capo alla cosiddetta Public Art e all’azionismo.
Anche sul palco, la loro è performance più che musica in senso
stretto (basti dire che si sono esibiti anche in playback), e ciò
che dà forza a certe loro azioni e dichiarazioni improbabili è
uno slancio ironico e sarcastico vivo e pulsante, che li rende in grado
di ergersi al di sopra di tutti i disturbi della personalità tipici
di chi sperimenta prendendosi troppo sul serio. Questo al di là dell’aspetto musicale, perché se dobbiamo parlare nello specifico di questo disco che segue di ben cinque anni l’esordio “Glad To Be Here” è necessario riconoscergli un valore che va ben oltre l’impostazione di partenza. I sei misteriosi romani, dai nomi di battaglia quantomeno bizzarri (pix, abel aabab, +uno, e.spenazo, rudi van mad e ben presto), propongono un intracciabile caleidoscopio sonoro che rimescola generi in allegria, dalla new wave alla no wave, dall’elettronica al blues all’avanguardia pura passando per il noise, spesso e volentieri con idee che risultano buffe nella loro bizzarria. Tra Jon Spencer e Tom Waits, tra Suicide e Residents ma soprattutto vicini a questi ultimi, i Larsen Lombriki riescono a non essere mai scontati e a sorprendere, soluzione dopo soluzione, l’ascoltatore che non sa mai cosa aspettarsi da loro. Difetto più evidente, la carne al fuoco è forse troppa, e una volta trovato un buono spunto la frenetica spinta a cercarne uno nuovo preclude l’opportunità di sviluppare percorsi che sarebbero potuti risultare molto interessanti. Ma a loro, supponiamo, poco importa: se sperimentazione buffa deve essere, che sia. (3,5/5) Fabio Cagnetti |