Frutto maturato per ben otto
anni (dal 1995 al 2003), questo Soundtrack Stories vede Falter Bramnk (al
secolo il francese Frank Lambert, vecchia conoscenza Snowdonia, polistrumentista,
sperimentatore/improvvisatore, deejay…) alle prese con la propria
cinefilia. Un'ossessione, una piacevole condanna, punto di vista e di partenza
e dissoluzione. Le quindici tracce elaborano infatti frammenti sonori di
pellicole più o meno di culto - o comunque ben vive nel culto personale
del Bramnk - alternandole sullo sfondo o in primo piano di costruzioni elettroacustiche.
Se è vero che come diceva quel tale tutte le arti tendono alla condizione
della musica, Falter sembra farsi il tramite invisibile di questo passaggio,
l'agente che distilla (diluisce) la suggestione cinematografica in concrezione
sonora. Ricordi-visioni come ferite dell'anima, cicatrici di voci ed effetti
ambientali accolti nel (montati nel) grembo di suoni freddi, organizzati,
volutamente "distanti", come a doversene difendere. E non solo
quando abbozzano movenze sintetiche Warp-style (come in Toccata e fuga,
dove la cosmica claustrofobia di 2001 Odissea nello spazio è
tutta condensata nel close up di un respiro affannoso) o una wave visionaria
prossima a certo Brian Eno o ai Pink Floyd
di Animals (la tossica iridescenza di Alpha libre), ma
anche nel pietoso distacco di synth e vibrafono di fronte al sadismo estatico
de Il tacchino di Venezia (dal Casanova di Fellini),
nell'inusitata quiete jazzistica che spande pietosa coperta sulla cupezza
infernale di Working life, nella seraficità con cui fagotto,
flauto e pianola assistono all'atroce coprofagia de Il girone della
merda (dal Salò di Pasolini). C'è questa sensazione di anime perse nel limbo dell'immaginario, un'orgia di sensi desensorializzati, di caratteri condannati alla vita riflessa, al simbolo. Anime e immaginario però una cosa sola, l'impronta del cinema sospesa in formalina alienante per l'eccessiva energia che l'ha provocata. Se c'è un denominatore comune tra le pellicole utilizzate, va cercato nella condanna del conformismo, delle meccaniche normalizzanti spacciate per vivere civile. Il cinema quindi come grido e colpo di coda del fattore umano, tanto più disturbante quanto più oppresso, tanto più crudele quanto più sensibile. Questo spiega la sublime oscenità stupendamente pop de L'esorcista e la di esso corrispondenza sonora Linda for the devil, dove un’inquietante solennità eniana è squarciata dalle diaboliche lamentazioni dell'invasata con effetto drasticamente (e didascalicamente) floydiano (del tipo Careful with that axe, Eugene...). Questo spiega anche l'insostenibile ma ordinatissima violenza di Arancia Meccanica e (quindi) la rutilante orgia di watt su bailamme ritmico di Alex is happy, che giustamente va a spegnersi in un valzerino marionettistico. Molto interessanti poi gli esiti jazz-soul conseguiti in La cage (frammento da Ascenseur pour l'echaffaud di Louis Malle), opportunamente ammorbati di fusion sordida, radente, davisiana. Bella - ancorché terribile - la violenza scompaginata di Noir c'est noir, con starnazzate free di sax (a cura di Laurent Rigaut), spari, grida, disarticolazioni jazz/blues e strappi lo-fi. Notevole il senso di viaggio nel ventre del sintetico ignoto che s'innesca a partire dal primissimo piano su rotella di telefono in MacMahon 91-73 (da Le samourai di Jean-Pierre Melville). L'apice del disco è però In or out (da The adjuster di Atom Egoyan), vera e propria suite consumata tra ipnotiche reiterazioni di frasi, folate di esotico violino ed esotica voce, rimbombi sordi, crepitii d'incendio, ansiti di sesso febbrile ed esistenzialismo attonito. Soundtrack Stories è quindi un omaggio alla forza del cinema e assieme una biografia sentimentale dell'autore, che rivela la mappa della propria inquietudine a partire da quelle scatenatesi sotto il fascio del proiettore. Opera complessa, da cui farsi attanagliare oppure nulla, non sono previste mezze misure. Nel caso che sì, può turbarvi fino al divertimento. (7.2/10) Stefano Solventi |