Colonne sonore per fotogrammi
sparsi. Potremmo definire così questo secondo lavoro di Bramnk per
la Snowdonia. Disco affascinante e che di certo piacerà moltissimo
agli appassionati di cinema, soprattutto per quella capacità di conferire
nuova verve all'elemento sonoro che sottolinea la forza diretta (e indiretta…)
delle immagini. Registrate tra il 1995 e il 2003, queste "soundtrack stories" raccontano vicende che non necessariamente rimandano ai film cui Bramnk si ispira o cui "ruba" frammenti sonori (rumori, voci recitanti, fondali muti). Storie che, infatti, in più di un'occasione finiscono per dare vita a nuovi orizzonti narrativi, in cui l'elemento cinematografico di partenza si appropria di nuovi sovra-sensi e di affascinanti, inedite sfumature. E' il caso, ad esempio, di "Toccata e fuga", che omaggia "2001: Odissea nello spazio" di Kubrick con un pulsare sinistro (sempre sull'orlo dell'evanescenza), risa isteriche e granuli electro; oppure di "Zone", dove vengono usate e mixate due parti della colonna sonora originale di "Stalker" di Tarkovsky. Altrove, ritornano i fantasmi cinici del Pasolini di "Salò" ("Il Girone della Merda", dal respiro classicheggiante), di Godard ("Alpha Libre", che sulla scia del suo "Alphaville" libera un caos "industriale"; e "Le Cas Hans Lucas", che opera per un disimpegno jazzato, con la mente rivolta a "Fino all'ultimo respiro") e di Josè Giovanni (minimalismo e radici cosmiche per il suo "Dernier Domicili Connu"). Fantasmi, si diceva. Figure fragili scolpite con trame accuratissime nei loro labirinti di mistero e di fascino visionario, non risparmiandosi quanto a varietà stilistica: la space-dance minimalista di "Linda For The Devil" o i Cluster con deformi propaggini voco-foniche di "Service Spécial"; o, ancora, l'atmosfera desertica di "In Or Out", in cui coagulano fragranze di world-music, paesaggi rumoristi e coni d'ombra isolazionisti. Digressioni sonore che rasentano un descrittivismo mentale, tale da costringere a gettare ponti tra due arti, due modi di esprimersi, così vicini e così lontani. Un gioco di rimandi e di sfumature affascinanti, che trattiene a sé con poteri arcani e taumaturgici. Un gioco, però, che lungo l'arco dei suoi settanta minuti finisce anche per mostrare la corda. È innegabile, infatti, che la verve creativa di Bramnk si assottigli e si smarrisca non poco nella seconda parte del disco. Se "Il Tacchino di Venezia" omaggia Fellini e scivola via in maniera inconcludente, "Alex is Happy" gigioneggia tra Kubrick e Henry Purcell, in maniera indecisa, confusa, come nel mosaico di sample di "Noir c'est Noir", impreziosito, comunque, da un sax alto schizoide quanto basta per tenere desta l'attenzione. Probabilmente, la cifra espressiva del disco risente molto del modo in cui i brani sono stati assemblati lungo l'arco di quasi un decennio. Considerarli come parte integrante di un progetto unitario, dunque, non fa altro che penalizzare quella che, a tutti gli effetti, può essere considerata come una raccolta di piccole storie "immaginarie" che molto hanno a che fare con l'amore per il cinema, la sua magia, i suoi sogni, la sua capacità di rimandare a mondi (im)possibili. Anche per questo, dunque, un ascolto da consigliare vivamente a chiunque. Nonostante tutto. (6,5/10) Francesco Nunziata |