“Accade che dall’albero
si stacchi un bel fiore, e che dal ramo volteggi fino a terra. Ed accade
che sia un ragazzo a guardarlo staccarsi dal ramo. Mentre il fiore compie il suo primo volteggio, egli cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno: non c’è bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l’orizzonte con sorrisi d’intesa: così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti. Al secondo volteggio, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa in tempo a fissarlo che già precipita verso il confine dell’orizzonte; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire. Al terzo volteggio, il ragazzo - chiamiamolo, per comodità, Giovanni - si guarderà attorno incredulo; poi sentirà un trepestio di passi sopraggiungenti alle spalle, vedrà la gente, risvegliatasi prima di lui, che corre affannosa e lo sorpassa per arrivare in anticipo. Sentirà il battito del tempo scandire avidamente la vita. Non più alle finestre si affacceranno ridenti figure, ma volti immobili e indifferenti. E se lui domanderà quanta strada rimane, loro faranno sì ancora cenno all’orizzonte, ma senza alcuna bontà e letizia. Fino a che Giovanni rimarrà completamente solo, e all’orizzonte ecco la striscia di uno smisurato mare immobile, colore di piombo. Oramai sarà stanco, le case lungo la via avranno quasi tutte le finestre chiuse e le rare persone visibili gli risponderanno con un gesto sconsolato: il buono era indietro, molto indietro e lui ci è passato davanti senza sapere. Allora si guarderà ai piedi, e chinandosi sulle gambe malferme riconoscerà quel fiore che con le sue danze delicate lo ha da sempre seguito: sta concludendo l’ultimo volteggio. Stanno per concludersi i viaggi di entrambi.” Ci perdonerà l’immortale - lui sì - Dino Buzzati se ci siamo appropriati di una delle pagine più belle del suo Deserto Dei Tartari per descrivere 13 Piccoli Singoli Radiofonici: ma gli italiani Aidoru dimostrano che di giapponese non hanno solo il nome ma anche la sensibilità, che affiora già sfogliando il booklet, sorta di haiku al contempo delicato ed impietoso. Ma è la musica, l’abbacinante musica degli Aidoru che rende questo album assolutamente importante: perché i quattro, pur attraversando una grande quantità di generi (il cantautorato di Giorni e Nothing Infinity Reality, il math rock di Se Dormi e quello marziale di Preludio Op.28 n°2, l’interludio branduardiano di Angelo-Gnomo, il trip-hop corale e moltiplicato di Parole Porte Parole Ali), non forgiano un lavoro disomogeneo e discontinuo, ma anzi riescono a proporlo come estremamente differente da molta produzione discografica odierna. In 13 Piccoli Singoli Radiofonici si respira infatti una caducità, una mortalità dolorosa e disperata: a fronte di tanti dischi “sicuri”, gli Aidoru si lanciano nel vuoto oscuro, trapezisti senza rete, barattando i classici “cento giorni da pecora” per una fine lucida, morbosamente affascinante, luminosa quanto (ed in quanto) improvvisa e consapevole. Gli Aidoru sono una supernova, un macaco in un’astronave proiettata ai confini del cosmo, un lampo splendido perché cosciente che lascerà presto spazio ad una crudele dissolvenza. E i loro brani hanno in sé la profonda coscienza ed al contempo l’improvvida incoscienza che traghetta al suicidio coloro che sono troppo saggi per restare. Cos’avrete capito, di ciò che effettivamente c’è in quest’album? Poco o niente, con ogni probabilità: ma mi scuserete, ché 13 Piccoli Singoli Radiofonici non è davvero disco da esperire tramite una recensione. Ascoltatelo, penetratelo a fondo e capirete perché, oggi, gli emiliani Aidoru sono tra i pochi gruppi che non possono non produrre musica. Perché la loro è musica come antidoto all’antichissimo e mai come oggi pulsante male di vivere; è fiore di loto, oppio che allontani le brutture, la solitudine, lo scorrere inesorabile degli inverni. La loro musica è un fiore, conscio sì di volteggiare verso la terra, ma proprio per questo, forse, eterno. (4.5/5) Carlo "Cruel" Crudele |