Gli Aidoru sono cambiati, moltissimo. Sono rimasti gli stessi. Sono cresciuti. Sono tornati bambini. Non hanno età (Angelo Gnomo). Dalle due canzoni demo, S e She dressed blue, ancora oggi, da avere, scivolando per i "...5 piccoli pezzi per gruppo con titolo...", fino a questo ossimoro di primavera autunnale, d'invernale estate, scorre un rivolo sottile di sangue: esce dalla musica, caldo e dolce, s'ingrossa minacciosa, irriga. E la musica degli Aidoru è dolore - scaturigine, una ferita - risorgiva incurabile. Il pulsare melodico delle loro canzoni - quasi una condanna - muore come un seme, si sviluppa in infiorescenze emotive (nothing infinity reality) che si abbarbicano all'anima e serrano il respiro. Tutto intorno ci sono le minacce di un mondo troppo conosciuto riflesso negli intrichi "progressive" delle loro canzoni (io guardo spesso il cielo), nel deliquio onirico (Parole porte parole ali), nei deja vu canterburiani (Phase-difference), nel jazz "stracciato" (se la parola amore). Gli Aidoru sono violenti: tracheotomizzano il pop, lo fanno respirare squarciandogli la gola (Fas 3 bis). Sono complessi, come lo sono in passaggi dell'anima, che disegnano con tutte le ombre degli stupri subiti e le dolcezze desiderate.
È cresciuta la loro perizia esecutiva - un disco di tal fatta la richiede e la manifesta - ma pure - cose che in genere non si osano chiedere - s'è elevata la "grazia" creativa. Ci piace pensare poi, all'eterno femminino, alla "voce" nascosta di Mariangela Gualtieri, autrice di quasi tutti i testi, alla sua sfrontatezza emotiva che fa chiudere il disco con amore che sei il mio destino / insegnami che tutto fallirà / se non mi inchino alla tua benedizione. Pop Bottom al Termine del Paese delle Meraviglie. (8)

Dionisio Capuano