Franco Di Terlizi AKA The
Finger arriva al disco d'esordio dopo un già considerevole numero
di CD-R realizzati in felice (a giudicare dai risultati) autarchia, ponendo
cioè mano di persona a chitarre (elettriche e acustiche), tastiere,
basso, armonica, theremin, banjo e samples vari. Un tipo ostinato come tanti,
però un ostinato di talento. Infatti Sugar Plum Fairy, per
quanto - e giustamente - sorta di best of di quanto prodotto finora, cuce
una trama palpitante di melodie ispirate, alterna lungo quattordici tracce
dolore e stupore, inquietudine dolciastra e allegria indolenzita, riflesso
di un'unica riconoscibilissima sensibilità. Nella quale si accoccolano influenze piuttosto chiare e per nulla ingombranti, su tutte la psichedelia sgangherata dei Flaming Lips (periodo Hit To Death To The Future Head) e la fragilità devastata di Mark Linkous/ Sparklehorse. Da entrambi mutua il gusto delle atmosfere perturbate, fischi di feedback, scariche elettrostatiche, cigolii elettronici, sottili raffiche noise ad offuscare/proteggere l'anima a nudo, proprio come fa il mondo col suo quotidiano assalto, col suo rumoreggiare che è presenza, minaccia e conforto assieme. Mi piace questo suono che sfida la penuria dei mezzi facendone anzi punto di forza, proponendosi vivido, cangiante, strutturato lungo instabili profondità. Idem dicasi per la voce, che gioca con i propri limiti volgendoli in calligrafia, presenza dominante però in qualche modo appartata, "debole", schermata da una caligine onnipresente (inevitabile andare col pensiero ai Good Morning Boy, altra one man band promettentissima di cui si attende l'opera seconda a breve). Quattordici tracce, dicevo, mediamente buone, con un paio di inevitabili passaggi interlocutori (quella Circles che sembra un Tom Petty allucinato e la sbrigliata faciloneria - comunque gradevole - di Old Dead Flowers) e qualche momento eccellente, come Song For P (angosce e frivolezze in un impasto asprigno, tra Sparklehorse e Byrds passando per nebbioline Clientele), The Alien And The Sea (psichedelia piana spremuta da un country rock intimista, trepido incontro tra steel guitar ed elettroniche) e There And Back Again (chitarrina essiccata, basso profondo, gli organi pennellano brume, il canto ha nel mirino tanto Jonathan Donahue che l'onnipresente Linkous). Il capolavoro è però opportunamente posto al centro del disco: s'intitola Blue And Blue ed è una lenta cospirazione di organino, armonica e chitarra acustica, la voce che si sdoppia in due fragilità, una sensibilità soul-blues sulla steel guitar che aspira al Ry Cooder desertico o - se volete - al Ben Harper meno sboroncello degli esordi. A movimentare la situazione pensano tanto il gorgoglio country rock di Alone In A Hole (il Neil Young di Comes A Time stemperato in una beffarda mestizia vagamente Howe Gelb) quanto la sbrigliatezza pop di Shine (tra Steve Wynn e i Pavement meno sghembi), mentre When It Rains si aggancia ai timpani giocando con un assolo di chitarra caldo e tagliente come in Fuzzy dei Grant Lee Buffalo. A voi il gusto di scoprire il resto, non prima però di aver segnalato il traslucido sogno lennoniano di Flying Back In Time (la voce acquosa e i synth quasi krauti, fino ad una fulminea coda chitarre e tamburino) e la conclusiva Everyday Was Summer, ballata tersa un pò 4 Non Blondes e un pò - ancora - Grant Lee Buffalo, feedback eccentrici a scompigliare le coordinate, la defilata ebbrezza del canto a consumare l'ultimo omaggio a sua bizzarria Wayne Coyne. Un bel disco insomma, addirittura terapeutico considerata l'imminenza del caravanserraglio sanremese. Godiamocelo come segnale di una insperata, fresca e assieme matura dimensione autoriale dell'italico folk-psych. (7,2/10) Stefano Solventi |