Dire che i Transgender sono
un quintetto (basso, batteria, chitarre, voce e tastiere), cioè dire come
stanno in effetti le cose, significa piantare dei paletti che la raffica
di collaborazioni (remixer, vocalist, strumentisti) inesorabilmente spazza
via. Tentare di categorizzarli in un genere è impresa da pubblicisti grossolani
o disperati all'ultimo stadio, per cui va bene quel "crossover"
che dice tutto senza dire un bel nulla. Se poi vogliamo aprire il capitolo idioma, allora c'è da rimanerci secchi, perché al di là di italiano, francese e inglese (omaggiati con una canzone ciascuno) la lingua maggiormente utilizzata è una riarticolazione di elementi balcanici, greci, tedeschi e orientali (!) su iniziativa del vocalist Lorenzo Esposito Fornasari. La motivazione ufficiale: maggiore libertà espressiva. Si smette di scuotere la testa a metà dell'iniziale Dre Oucantelva, un bailamme frenetico e struggente che sorge da brume dark-prog, s'invola attraverso una psych apocalittica di stampo floydiano (periodo Animals), sospensioni bucoliche Genesis e decolli cosmici King Crimson: innervato nel midollo del delirio, il canto risuona evocativo, misterioso, ma soprattutto convintissimo di sé. Esame passato, diffidenza polverizzata, avanti così. Casomai pensaste che tutti questi riferimenti siano un'esagerazione, lasciate che vi introduca Multis, della serie Goran Bregovic coinvolto in una performance di Laurie Anderson con Mike Patton a folleggiare nei dintorni. E che dire di quella Craud che incastra un gorgheggio à la Demetrio Stratos nel bel mezzo di una patchanka noise? Lungo il programma si possono poi incontrare stomp jazzati à la dEUS (A Crime Memoir), palpitanti geometrie post-rock iniettate di psych (Spoony Geeza), cospirazioni poliziesche in salsa araba (Dernier Jour) oppure ballate in bilico tra valzer, jazz e perturbazioni elettroniche che piacerebbero a un Marco Parente o a un Jim ò Rourke (la stupenda Dre Foé). Spicca poi per l'altisonante benedizione di "Giolindo" Ferretti (la cui Bottega di Musica e Comunicazione tra l'altro distribuisce contributi in tutto il disco) la semi-strumentali Mantra, post-rock a cuore spalancato su armoniose vedute. Ma non vi ho ancora detto di come questo disco si diverta a scombussolarci il display indicando 69 minuti di durata per altrettante tracce: il trucco naturalmente c'è, ma vi lascio il piacere (?) di scoprirlo da soli. Non posso tuttavia esimermi dal segnalare l'incredibile ghost track, che dopo il "field recording" di un'abluzione (mattutina?) precipita in un inferno di muezzin con il basso spiegato, synth esoterici, percussioni invasate e chitarre nevrasteniche. Un pò Shellac e un pò Fripp, un pò Old Time Relijun e un pò Negrettes Vertes, imperdibile comunque con i suoi undici minuti e passa di estasi e tormento. Poi, sorta di pozzo di San Patrizio per gli eterni affamati rock (rock?), grazie al vostro fido PC potrete estrapolare un mp3 dal titolo Uncle M16, de-costruzione e ristrutturazione a cura del druido sintetico Eraldo Bernocchi (ricordate il suo lavoro per Co.Dex di Ferretti?): ne risulta una danza moderna colma di tremori, jungle sordida e singulti industriali. Che dire, belloccia pure questa. Insomma, una scorpacciata tale che è quasi difficile crederci, eppure è lì con il suo squarcio sulla superficie delle cose, esala i gas di un tempo e di un luogo sull'orlo di mille tragedie ed altrettanti prodigi. Un invito alla complessità, all'incontro di culture che si specchiano reciproche decadenze e ricchezze sopite, fatiscenti e meravigliose, immanenti come placche tettoniche e fragili come il gambo di un fiore. Sen Soj Trumàs è un buon modo per imboccare l'autunno. Come minimo. (7.5/10) Stefano Solventi |