Ci avevano sorpreso, tre anni
fa, i Transgender, con un esordio che rappresentava una dimostrazione clamorosa,
almeno per quanto riguarda la scena italiana, di come gli steccati fra i
generi musicali - anche quelli all'apparenza più lontani - possano in realtà
essere superati. C'era di tutto, in quel disco, ed era mescolato con una
sicurezza tale da lasciare a bocca aperta. Ora, con un organico ridotto
e parzialmente modificato, la band romagnola torna alla carica e continua
a meravigliare, seppure in maniera diversa, più sottile. Il sincretismo
stilistico pare infatti ancora più radicato nella struttura dei brani, maggiormente
lineare, se vogliamo, e quindi meno di impatto, anche se quasi sempre altrettanto
efficace. Venuto meno l'effetto sorpresa, la formazione non ha paura di
lanciarsi in sfide sempre nuove, a partire dalla scelta - alla lunga discutibile,
ma concettualmente interessante - di scrivere quasi tutti i testi in una
lingua inventata ma dotata di una propria struttura logica, che ingloba
e rielabora strutture e termini degli idiomi più disparati. Lo stesso che,
passando alle musiche, avviene con elettronica, post-rock, jazz, klezmer,
metal, percussioni tribali e mille altre sonorità, innestate l'una sull'altra
fino a creare una materia nuova, spesso originale e, pertanto, di non facile
classificazione. Un contesto di una eccentricità tale da far passare in
secondo piano anche le collaborazioni illustri con un Giovanni
Lindo Ferretti a dire il vero un pò troppo di maniera e con Eraldo Bernocchi. Aurelio Pasini |