Primo punto a favore nel nuovo album degli emiliani Transgender: il graphic work. La copertina ci mostra, infatti, un niente affatto preoccupato Stalin appeso, come il Cristo nostro signore, a una croce. Tutto attorno solo rapaci corvi e reperti d'archeologia industriale. La fine delle speranze, la decadenza delle civiltà, in qualche misura la morte stessa del linguaggio, convenzionalmente inteso, così come preconizzata dal gruppo. La novità rispetto alle precedenti uscite della band sta tutta nell'adozione di una lingua parlata inventata. "Sen Soj Trumàs", in tale fantasioso idioma, dovrebbe significare "Sostituzione Di Un Organo Di Senso". Quello forse che ci è stato inavvertitamente amputato e senza il quale ogni lingua, anche la più comprensibile fino a ieri, diviene solo confusione di suoni, accozzaglia di fonemi. E allora se Babele deve essere, che Babele sia. Nelle musiche, oltre che nel parlato-cantato. Ore Oucantelva, Multìs e Craud innanzitutto, dove rivivono le astrazioni geometriche più intellettuali degli Art Bears mescolandosi a sapori jazzati, balcanici, marcette sfasate, da teatrino delle marionette, surreali e volubili, incomprensibili eppure "adocchiabili". Tutto in un mentre. O ancora Mantra, con Giovanni Lindo Ferretti che fa la sua cosa senza smarrirsi. Ma anche senza stupire.
Sino ai pezzi forti della stranita operetta: A Crime Memoir e Spoony Geeza, calderoni ribollenti in una miriade di stili (dal post-rock al recitato teatrale). Ecco allora che tutto torna: il simbolismo post-industriale, in un certo senso post-umano, della band così come espressosi nella simbiotica copertina.
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Massimo Padalino