Non chiedetemi, per favore,
se quello che scriverò dei Transgender abbia un percorso logico, non discutete
troppo su eventuali paragoni o sulle potenziali descrizioni dei brani. Sarebbe
inutile e tedioso per me, ma, soprattutto, per voi: un'esagerazione di sonorità
differenti (troppe? Dipende dai gusti), mille attitudini, svariate impostazioni
ed echi di tanti di quei generi che per farne un elenco dovrei evitarvi
la recensione. Preferisco provare, senza alcuna pretesa di totale chiarimento,
a scrivere le semplici impressioni di un album destinato a schiaffeggiarvi
(e con una forza non indifferente) se avrete il coraggio di sfidarlo. Come punto di partenza potremmo prendere l'iniziale Dre Oucantèlva, che legami con una certa schizofrenia prog lo ha nei geni, ma è più malata, molto più malata ed evocativa. Del resto quando leggi testi che sfiorano l'italiano e l'inglese per poi dirigersi in deliri dell'Est (i Balcani o giù di lì immaginiamo), all'interno di brani che possono anche ricordare una sfera math come del finto jazz mischiato alla scuola di Chicago più ispirata trasferitasi nell'Ex Jugoslavia che puoi aspettarti? Se aggiungi che i minuti sono 69 e sul display compaiono altrettante tracce (non è vero, però...) comprendi ancor di più che la follia è assoluta, ma incredibilmente lucida e voluta. Non pensate a sperimentalismi squisitamente cerebrali, del resto un episodio come Multìs è solo Bregovic che scherza con Capossela in una selva dipinta da colori sgargianti e Mantra ha una trama che si aggira nei dintorni del post elevata da un Giovanni Lindo Ferretti in forma smagliante (ed era un pò che non lo trovavamo così). Nulla di strano, è semplicemente quello che ascoltiamo ogni giorno. Solo in maniera diversa. È degenerazione, è rifiutare una definizione e sfruttarla per uno sputtanamento ironico di chi pensa impossibile mischiare il tutto a qualcosa di più. Difficile avvicinarsi a "Sen Soj Trumàs", ma se lo farete non lo abbandonerete più. Potrebbe essere pericoloso. (4/5) Marco Delsoldato |