Ad un anno di distanza dall'
ottimo "Do you still remember...", in cui collaborazioni e rifacimenti
di terzi si sprecavano, secondo una programmatica linea ideologica autoreferenziale
che li vede sempre più distanti da sè stessi, Albano Scotti e Romina La
Fauci ritornano scandalosamente, in veste strettamente autoriale, affidando,
stavolta totalmente, le partiture dei loro componimenti ad arrangiatori
coi controcazzi. All' interno, musiche da boudoir si sviluppano in forma
di ipnotiche suite modali che sembrano, per intensità, durare molto più
del loro tempo effettivo ( i due minuti e mezzo di Andy Warhol made in china, sostenuti da un basso micidiale, sono davvero
relativi ). Un disco che, tra deejays rosa su fondi rosa, madonne dal collo
lungo, macinini mancini, lame affilate, cunicoli claustrofobici, forbici
di barbieri atletici, chiccherie elettroniche, misteriosi recessi mnemonici
come scintille perse nel buio, incantesimi e disincanti, non mancherà di
destare sbigottimento e perplessità in chi è convinto che l' underground
debba essere sporco e cattivo. I Maisie, infatti, rivolgono lo sguardo ad
un altrove lontano e dorato, in cui idealmente Webern, Stockhausen,
Maderna e altri geniacci fanno
merenda coi grandi autori di canzoni immortali come Gershwin, Rodgers, Porter, scongelando pesci d' intrattenimento, sperimentando innesti
plastici, ficcando melodie aggraziate in tutti gli orifizi e decorando con
piume di pollo. Naturalmente i paradossi nascenti dalla operazione di non
musicisti (infatti non suonano letteralmente alcunchè ) che scrivono composizioni
e le fanno arrangiare ed eseguire a musicisti "seri", con ciò
che ne consegue rispetto a stile, tecniche personali, impostazioni e approcci,
scelta dei suoni, avrebbero bisogno di essere approfonditi con mille riferimenti
al Pop, al Dada, tenendo conto delle infinite possibilità che ha la rappresentazione
di un' idea. Il discorso centrale di fondo, che hanno focalizzato e a cui
sono arrivati i maisinesi col loro solito, disimpegnato, spiritoso atteggiamento
estetico, verte sul concetto di "senza tempo", sulle magiche concatenazioni
di note che rendono assoluta un melodia, sulla validità, insomma, della
musica nella essenzialità della composizione. È bello ciò che piace
o ciò che è veramente, indiscutibilmente bello? Il tema di Brazil
è di una bellezza unica, sia cantato da un bambino che suonato furiosamente
da centinaia di persone festanti o da un coglione diplomato al conservatorio
col suo bel leggio davanti, mentre 'Smells
like teen spirit' è una merda, anche rifatta dal Kronos (o dall'Arditti,
non ricordo). Una visione lucida-ludica pienamente consapevole, quella degli
snowdonici, che si esplica interamente nel concetto espresso dal titolo,
nonchè nel manifestino diaframmaticamente recitato da un beffardo Marco
Pustianaz che invita, come un monito, all'ascolto. Dick Smart 2.007 ci introduce
in un torbido night club affollato di gangsters italoamericani in gessato,
puttane sdentate che ancheggiano su un conturbante ritmo di synth-jazz lascivo
e possente, mentre una tromba languida scivola su un leggiadro loop di wives
and lovers del maestro Bartolomeo. Subito dopo, "Resta di stucco è un barbatrucco",
tema caro ai nostri, singultante e imprevedibile ci accompagna nei recessi
della nostra pubertà, quando giochi con pupazzi e figurine e pensi già a
scopare. Ti lasci dietro la spensieratezza delle bande di paese, dei luna-park
pervasi di odori dolciastri, con le giostre che sembrano levitare, la testa
che gira, il vociare della gente, le luci confuse, come in un sogno felliniano
di equilibristi emaciati, mangiatori di fuoco e organetti a manovella. "I'm
swinging", dall' inciso weilliano, diverte con gli intermezzi sci-fi
e stupisce con le progressioni del piano sul battere del rullante. L'alito
caldo del phon scongela poi, con lo swingante pop alieno di "Uxoricide
waltz", il Nicholson di Shining che, ricominciando a connettere,
si ritrova un' accetta tra le mani e ricorda. Una frase di organo ostinatamente
reiterata, giri di basso che non si chiudono mai, larsen dissonanti, un
sax ruffiano contrapposto ad un esile flauto, tutto concorre a rendere l'
atmosfera poco rassicurante. "Sun
burns in pink air" è uno dei momenti più alti e riusciti di perfetto
elettropop demodè, screziato appena da synth scorreggioni e cut-off acidi,
con un imperdibile, lungo middle strumentale di sconvolgente bellezza. Dopo
il delizioso intermezzo di jazz sporco e dolorosamente vitale di Andreini
& theFartfara, che riprende Dick Smart in un' altra chiave, si precipita,
con "Sadist of Notredame", in un incubo residenziale fatto di
violini martoriati, trombe imploranti pietà, campane funeree. Pensi di esserti
risvegliato, con una vocina che ti ronza nella testa intorpidita, e invece
rieccoli i mostriciattoli minacciosi in Plaisir à trois, una drammatica
colonna sonora horror tra Dario Argento ed Henry Cow, tesissima all' inizio e sospesa nella seconda metà, come gli
ultimi secondi prima della carneficina inevitabile in cui ti ripassa la
vita davanti mentre sei paralizzato dalla paura. Il disco si chiude soavemente
coi tedeschi Daisy Cooper che interpretano "My
body was a luminous accumulator" nella sua pura essenzialità, con
una voce angelica che volteggia su un arrangiamento di imbarazzante, luminosa
semplicità: intro, strofa, refrain, fine.
Aldo
Spavaldo |