A cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Jet Set Roger
Trascorsi punk, presente glam da dandy romantico, oggi scrive “canzoni tristi”. Un filo rosso: il rock. Nato a Londra da padre bresciano e madre inglese, Roger Rossini si fa chiamare “Jet Set”. La Snowdonia/Audioglobe ha pubblicato il suo primo album solista “La vita sociale”.
Ci parli di te? Origini bresciane, nascita londinese…
Sono
nato a Wimbledon nel ’73 da madre inglese, ma nel tennis sono una
schiappa, come in quasi tutti gli sport. Ero bravino con il fioretto
elettrico, mi piaceva la scherma perché ci si mascherava. Avevo la
fissa dei travestimenti: mia madre era preoccupata perché mi chiudevo
in salotto e marciavo vestito da guardia inglese al suono di “Pretty
Ballerina” degli Abba. Ero indeciso fra la carriera militare e il
vaudeville, e così li mescolavo insieme.
Con quali ascolti musicali sei cresciuto?
A
parte il primo flirt con gli Abba, ho ascoltato un sacco di hard rock
(Thin Lizzy, Blue Öyster Cult, Motörhead, AC/DC, Whitesnake). Il mio
problema era che a parte Phil Lynott, questa gente sembrava ok quando
si trattava di chitarre elettriche, ma aveva modi rustici. Pensavo:
“Non potrei portarli da nessuna parte, farei una figuraccia”. Poi vidi
una foto di Nikki Sixx su “H/M”: aveva capelli cotonati e la matita
sotto agli occhi, con una giacchetta da dandy di città. Capii che il
glam rock era quello che faceva per me e mi gettai alla scoperta di
David Bowie, Lou Reed, gente che sapeva come muoversi nel bel mondo, e
che non avrebbe mai ruttato ad un vernissage.
In generale quali sono (stati) i tuoi riferimenti culturali più influenti?
Soprattutto
Evelyn Waugh e P.G. Wodehouse, due facce della stessa ironia
sprezzante. Il primo è caustico, il secondo più leggero, anticipatore
di certe atmosfere da commedia garbata. In genere cerco di smussare
toni troppo drammatici nelle mie canzoni. Sono affascinato da film come
“Victor Victoria”, “L’abominevole dottor Phibes”, “La Rosa purpurea del
Cairo”. Opere riconducibili all’estetica anni ’30, quelli in cui
operavano Waugh e Wodehouse. Ho anche riferimenti al di fuori di questa
dimensione, ma resisto alla tentazione di gettarmi in un lungo elenco:
sono un maniaco compulsivo.
“La vita sociale” è il tuo primo album solista. Dopo quali esperienze ci sei arrivato?
Dopo
noiosissime e deprimenti traversie. Ho avuto un’esperienza di qualche
anno con le cosiddette major, da cui sono uscito triturato e masticato
come una Big Babol, poi ho incontrato Cinzia La Fauci (della Snowdonia,
NdI) che mi ha regalato una nuova vita musicale.
Perché hai scelto il parziale pseudonimo “Jet Set” (visto che la vita sociale non fa per te)?
Da
adolescente ero timido e schivo, ma penso di aver fatto pace con la
vita sociale: forse non sono un compagnone, ma riesco a farmi due
risate. Quando si sciolsero i Tommy Rot (il mio primo gruppo), ero
rimasto solo: nessuno voleva suonare con me perché non avevo pedigree.
Lasciai il punk e iniziai a esibirmi come pianista cantante. Dovendo
suonare seduto al pianoforte era il caso di spingere sull’immagine, e
mi inventai una dimensione scenica: una specie di travestito ingenuo e
un po’ buffo. L’appellativo Jet Set viene da “Tenera è la notte” di
Fitzgerald. Mi piaceva l’idea di questi ricchi annoiati e depressi in
perenne vacanza autodistruttiva in Costa Azzurra.
Nonostante le tue ascendenze siano british, ti esprimi in italiano. Come mai?
Perché quando cantavo in inglese nessuno capiva un accidente.
Le tue canzoni delineano il ritratto di un “goffo cool”, se mi passi l’ossimoro.
Sicuramente un po' goffo, cool non lo so. Sarcastico, distaccato, ma i
miei atteggiamenti da dandy sono solo uno scherzo. Non c’è nulla di
serio nel rock. Molti non lo sanno e si rendono ridicoli.
Sono reali anche la tua misantropia e la tua tristezza?
Mi
sento vicino a Jospeh Roth, l’autore della “Leggenda del santo
bevitore”. Mio nonno era ungherese, gli ungheresi sono malinconici.
Sono l’unico popolo oltre ai brasiliani ad avere un concetto per la
“nostalgia di casa anche quando sei a casa”: un perenne spaesamento. In
brasiliano si chiama saudade, in ungherese suona come “mulozog”, ma non
so come si scriva (neanche noi, NdI).
Qual è la “vita sociale” accettabile per Roger?
Domanda
difficile. Lucio Fulci diceva di non ritrovarsi nelle manie
autopsicanalitiche di colleghi come Dario Argento; preferiva svegliarsi
ogni mattina senza sapere chi fosse. È un esercizio arduo, ma ci provo.
Mi viene bene quando la sera prima ho esagerato un tantino.
Qualcuno ha paragonato la tua musica a un incrocio tra Baustelle e Morrissey. Cosa ne pensi?
Mi
piacciono molto gli Smiths, e mi accorgo di somigliare un po’ a
Morrisey nel cantato, anche se avendoli conosciuti tardi, quando avevo
già formato il mio modo di cantare, posso dire di non esserne un emulo.
Conosco e apprezzo i Baustelle (suonammo insieme sei o sette anni fa).
Ma a volte in questo tipo di pop raffinato manca un po’ il sugo: io
sono un rocker, e penso che il glam rock si senta parecchio nella mia
musica. Mi sento più vicino a gruppi come i Damned o Adam & The
Ants.
Ci sono musicisti italiani che apprezzi?
Devo
confessare di conoscere poco il rock e il pop italiano. Dovrò
rimediare. Mi piacciono il primo Edoardo Bennato, Alberto Camerini, i
Diaframma e i CCCP. Poi ci sono musicisti della mia generazione come
Bluvertigo, Afterhours, Cristina Donà, Baustelle, gente che stimo.
Domanda d’obbligo: prossimi programmi.
Sto
finendo di registrare una canzone, “Manituana”, come il libro di Wu
Ming. Sarà pubblicata sul sito omonimo. A novembre registrerò il
mio album di Natale, un misto fra il cabaret anni 40 e la musica
elisabettiana, rivisti in ottica dark-vaudeville, vedrò come e quando
pubblicarlo. A breve pubblicherò in rete una versione ampliata de “La
vita sociale”, che conterrà le versioni in inglese (sono madrelingua,
che diamine!). Nel frattempo sta circolando un documentario della
B&B film su Che Guevara: “Il corpo e il mito”. Il brano che si
sente nei titoli di coda è “El Che chez Roger”, la versione glam di
“Hasta siempre comandante” che ho scritto come ideale colonna sonora di
“Havana Glam” di Wu Ming 5. Il brano è scaricabile dal sito di Wu Ming.
Per ora il film è passato sulla TV irlandese, e ci sono stati i primi
contatti di gente che chiede chi è il tizio che canta alla fine del
film... Ho anche chiuso la scaletta del mio secondo album, che si
intitolerà “Canzoni Tristi”. E continuo a cercare un’agenzia che mi
trovi un po’ da suonare.
Contatti: http://www.jetsetroger.it/
Gianluca Veltri