Fuori Dal Mucchio Numero Settembre '07
A cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini

Jet Set Roger

Jet Set Roger

Trascorsi punk, presente glam da dandy romantico, oggi scrive “canzoni tristi”. Un filo rosso: il rock. Nato a Londra da padre bresciano e madre inglese, Roger Rossini si fa chiamare “Jet Set”. La Snowdonia/Audioglobe ha pubblicato il suo primo album solista “La vita sociale”.


Ci parli di te? Origini bresciane, nascita londinese…
Sono nato a Wimbledon nel ’73 da madre inglese, ma nel tennis sono una schiappa, come in quasi tutti gli sport. Ero bravino con il fioretto elettrico, mi piaceva la scherma perché ci si mascherava. Avevo la fissa dei travestimenti: mia madre era preoccupata perché mi chiudevo in salotto e marciavo vestito da guardia inglese al suono di “Pretty Ballerina” degli Abba. Ero indeciso fra la carriera militare e il vaudeville, e così li mescolavo insieme.

Con quali ascolti musicali sei cresciuto?
A parte il primo flirt con gli Abba, ho ascoltato un sacco di hard rock (Thin Lizzy, Blue Öyster Cult, Motörhead, AC/DC, Whitesnake). Il mio problema era che a parte Phil Lynott, questa gente sembrava ok quando si trattava di chitarre elettriche, ma aveva modi rustici. Pensavo: “Non potrei portarli da nessuna parte, farei una figuraccia”. Poi vidi una foto di Nikki Sixx su “H/M”: aveva capelli cotonati e la matita sotto agli occhi, con una giacchetta da dandy di città. Capii che il glam rock era quello che faceva per me e mi gettai alla scoperta di David Bowie, Lou Reed, gente che sapeva come muoversi nel bel mondo, e che non avrebbe mai ruttato ad un vernissage.

In generale quali sono (stati) i tuoi riferimenti culturali più influenti?
Soprattutto Evelyn Waugh e P.G. Wodehouse, due facce della stessa ironia sprezzante. Il primo è caustico, il secondo più leggero, anticipatore di certe atmosfere da commedia garbata. In genere cerco di smussare toni troppo drammatici nelle mie canzoni. Sono affascinato da film come “Victor Victoria”, “L’abominevole dottor Phibes”, “La Rosa purpurea del Cairo”. Opere riconducibili all’estetica anni ’30, quelli in cui operavano Waugh e Wodehouse. Ho anche riferimenti al di fuori di questa dimensione, ma resisto alla tentazione di gettarmi in un lungo elenco: sono un maniaco compulsivo.

“La vita sociale” è il tuo primo album solista. Dopo quali esperienze ci sei arrivato?
Dopo noiosissime e deprimenti traversie. Ho avuto un’esperienza di qualche anno con le cosiddette major, da cui sono uscito triturato e masticato come una Big Babol, poi ho incontrato Cinzia La Fauci (della Snowdonia, NdI) che mi ha regalato una nuova vita musicale.

Perché hai scelto il parziale pseudonimo “Jet Set” (visto che la vita sociale non fa per te)?
Da adolescente ero timido e schivo, ma penso di aver fatto pace con la vita sociale: forse non sono un compagnone, ma riesco a farmi due risate. Quando si sciolsero i Tommy Rot (il mio primo gruppo), ero rimasto solo: nessuno voleva suonare con me perché non avevo pedigree. Lasciai il punk e iniziai a esibirmi come pianista cantante. Dovendo suonare seduto al pianoforte era il caso di spingere sull’immagine, e mi inventai una dimensione scenica: una specie di travestito ingenuo e un po’ buffo. L’appellativo Jet Set viene da “Tenera è la notte” di Fitzgerald. Mi piaceva l’idea di questi ricchi annoiati e depressi in perenne vacanza autodistruttiva in Costa Azzurra.

Nonostante le tue ascendenze siano british, ti esprimi in italiano. Come mai?
Perché quando cantavo in inglese nessuno capiva un accidente.

Le tue canzoni delineano il ritratto di un “goffo cool”, se mi passi l’ossimoro.            
Sicuramente un po' goffo, cool non lo so. Sarcastico, distaccato, ma i miei atteggiamenti da dandy sono solo uno scherzo. Non c’è nulla di serio nel rock. Molti non lo sanno e si rendono ridicoli.

Sono reali anche la tua misantropia e la tua tristezza?
Mi sento vicino a Jospeh Roth, l’autore della “Leggenda del santo bevitore”. Mio nonno era ungherese, gli ungheresi sono malinconici. Sono l’unico popolo oltre ai brasiliani ad avere un concetto per la “nostalgia di casa anche quando sei a casa”: un perenne spaesamento. In brasiliano si chiama saudade, in ungherese suona come “mulozog”, ma non so come si scriva (neanche noi, NdI).

Qual è la “vita sociale” accettabile per Roger?
Domanda difficile. Lucio Fulci diceva di non ritrovarsi nelle manie autopsicanalitiche di colleghi come Dario Argento; preferiva svegliarsi ogni mattina senza sapere chi fosse. È un esercizio arduo, ma ci provo. Mi viene bene quando la sera prima ho esagerato un tantino.

Qualcuno ha paragonato la tua musica a un incrocio tra Baustelle e Morrissey. Cosa ne pensi?
Mi piacciono molto gli Smiths, e mi accorgo di somigliare un po’ a Morrisey nel cantato, anche se avendoli conosciuti tardi, quando avevo già formato il mio modo di cantare, posso dire di non esserne un emulo. Conosco e apprezzo i Baustelle (suonammo insieme sei o sette anni fa). Ma a volte in questo tipo di pop raffinato manca un po’ il sugo: io sono un rocker, e penso che il glam rock si senta parecchio nella mia musica. Mi sento più vicino a gruppi come i Damned o Adam & The Ants.

Ci sono musicisti italiani che apprezzi?
Devo confessare di conoscere poco il rock e il pop italiano. Dovrò rimediare. Mi piacciono il primo Edoardo Bennato, Alberto Camerini, i Diaframma e i CCCP. Poi ci sono musicisti della mia generazione come Bluvertigo,  Afterhours, Cristina Donà, Baustelle, gente che stimo.

Domanda d’obbligo: prossimi programmi.
Sto finendo di registrare una canzone, “Manituana”, come il libro di Wu Ming. Sarà  pubblicata sul sito omonimo. A novembre registrerò il mio album di Natale, un misto fra il cabaret anni 40 e la musica elisabettiana, rivisti in ottica dark-vaudeville, vedrò come e quando pubblicarlo. A breve pubblicherò in rete una versione ampliata de “La vita sociale”, che conterrà le versioni in inglese (sono madrelingua, che diamine!). Nel frattempo sta circolando un documentario della B&B film su Che Guevara: “Il corpo e il mito”. Il brano che si sente nei titoli di coda è “El Che chez Roger”, la versione glam di “Hasta siempre comandante” che ho scritto come ideale colonna sonora di “Havana Glam” di Wu Ming 5. Il brano è scaricabile dal sito di Wu Ming. Per ora il film è passato sulla TV irlandese, e ci sono stati i primi contatti di gente che chiede chi è il tizio che canta alla fine del film... Ho anche chiuso la scaletta del mio secondo album, che si intitolerà “Canzoni Tristi”. E continuo a cercare un’agenzia che mi trovi un po’ da suonare.

Contatti: http://www.jetsetroger.it/

Gianluca Veltri